Una bambinaia che fotografa per diletto, una donna che si aggira per le strade di Chicago con la sua Rolleiflex al collo e vive il mondo circostante raccontandolo a modo suo, un’inusuale osservatrice della realtà attorno alla quale continua ad alimentarsi il dibattito se sia da considerarsi una fotografa a tutti gli effetti oppure no. In verità, Vivian Maier sarebbe rimasta nel dimenticatoio e con lei tutta la sua produzione, se non fosse stato per John Maloof e la tenacia della sua ricerca sul materiale fotografico rinvenuto ad un’asta.
Ma chi era Vivian e cosa si celasse dietro il suo volto in apparenza imperturbabile possiamo tentare di comprenderlo calandoci dentro la sua grafia e tratteggiandone un ritratto “umano” che dia completezza ad una figura sfuggente che, proprio perché non più in vita, non potrà raccontarci nulla di sé se non attraverso il lascito indiretto della sua arte.
Il tracciato preso in esame è scarno, aderente al modello corsivo e quindi poco personalizzato; ad alcune parole scritte con più cura e lentezza si susseguono altre più affrettate, quasi “gettate via” e questa variabilità impulsiva e non ponderata definisce anche repentini mutamenti dell’inclinazione (dritta/inclinata a destra) e del calibro letterale (alternanza tra ovali grandi/piccoli). C’è una ricerca di chiarezza e di ordine che però sembra sfuggire: i frequenti stacchi tra le lettere o addirittura interni alle lettere (ad es. la d frammentata in due parti) suggeriscono un’esigenza di analisi spinta fino alla scomposizione del dettaglio. Partendo dai dettagli la Maier prova ad ottenere una sintesi che non è mai quella da lei desiderata sicché finisce per prevalere un inappagamento che strenuamente rinnova la sua indagine del visibile.
La bambinaia che fotografa cerca fuori per pacificarsi con ciò che si muove dentro, si isola attraverso una sorta di gesto catartico che la introduce in una bolla protetta dove c’è solo lei e l’azione dello scattare; diventa compulsiva perché tenta di trattenere, rapinare, accaparrare attimi di vita altrui di cui lei vorrebbe forse far parte. Il suo è un atto di sublimazione di una solitudine e di un senso di incomprensione che avverte quotidianamente: necessita di prender parte della vita di qualcuno tuttavia non è in grado di condividersi e per questo vive una sensazione di perenne estromissione. Così reagisce invadendo, a suo modo si tramuta in una voyeur, una stalker silenziosa che si aggira nella vita di persone che non la vedono o che la vedono di sfuggita nell’ultimo istante di un click, senza mai notarla.
Non ci sono elementi estetici nella sua scrittura che è austera, a tratti ruvida, respingente, in apparente contraddizione con gli inattesi cambi di direzione verso destra, lì dove, appunto, simbolicamente si va incontro all’ambiente, agli altri. Vorrebbe entrare in relazione ma riesce a farlo solo in una forma epidermica per cui lo scopo ultimo non è più realizzare fotografie e quindi pubblicarle per mostrare il suo talento, ma servirsi del mezzo fotografico per “esserci”, per partecipare della vita di milioni di sconosciuti e poi scomparire dopo lo scatto.
Elementi di stentatezza che si combinano con accelerazioni improvvise del tracciato, sostenute da gesti fuggitivi presenti sulle finali di alcune parole, riportano ad una capacità di osservazione maniacale che prevede pause e una certa pazienza unita allo slancio di concretizzazione dell’azione non appena “il momento” ricercato è pronto. L’appagamento di Vivian si congela nell’istante che subito scivola via e per tale motivo va costantemente e segretamente replicato, diversificandolo, senza svilupparlo per forza in un’immagine da esibire. Il processo creativo della Maier è un processo di interiorizzazione di ciò che il suo sguardo capta e si conclude all’interno della sua solitaria visione, sulla chiusura di un otturatore.